Carlo Beretta sta cambiando il ciclismo e rimprovera lo sci

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La storia dell’anno nel ciclismo italiano è stata, finora, la vittoria del campionato italiano élite da parte di Filippo Conca, un atleta dello Swatt Club. Squadra amatoriale fondata pochi anni fa, lo Swatt Club appartiene al quarto livello della piramide del ciclismo mondiale. Eppure, con poche risorse, un approccio innovativo e tanta voglia di emergere, sono riusciti a dominare il campionato italiano di Gorizia, ottenendo una vittoria tanto sorprendente quanto meritata e altisonante.

Se ne parliamo qui su Race è perché i quattro fondatori dello Swatt Club (Carlo Beretta detto Berry, Francesco De Candido detto Kaiser, Timothy Bonapace detto King Timo e Michele Garbin detto Garbo) arrivano tutti dal mondo dello sci. In occasione di un’intervista per la rivista di ciclismo Alvento, siamo stati a Barzanò, dove ha sede lo Swatt Club, per fare quattro chiacchiere con Carlo Beretta. Ne sono scaturiti alcuni ragionamenti interessanti anche per quanto riguarda il mondo dello sci. 

Beretta, che ha smesso di gareggiare nel 2016 dopo alcune apparizioni in Coppa Europa, è soprannominato “il Presidente” per il ruolo che ricopre nello Swatt Club. Filosoficamente è uno di quelli che “detta la linea” di questo movimento che sta cercando di cambiare il ciclismo su strada: «Quello che ho imparato nel mondo dello sci l’ho portato nel ciclismo. Alcune cose sono venute un po’ così, alcune le abbiamo sbagliate, altre erano facili da azzeccare».

Baruffaldi Beretta
Una foto d’archivio: Stefano Baruffaldi e Carlo Beretta

La sede di Barzanò è piena di cimeli sciistici. Pettorali appesi alle pareti, riferimenti alla Hahnenkamm-Rennen e tute griffate “SWATT” che vanno per la maggiore alle gare giovanili si mischiano con poster più pop. Tutti questi elementi definiscono l’humus culturale da cui arriva Swatt Club, un movimento che – nello sci come nel ciclismo – crea scompiglio. Ma non è una cosa che importa a Beretta: «Come diceva il più grande comunicatore di sempre, José Mourinho, non puoi piacere a tutti. Noi agiamo per ciò che abbiamo avuto di bello nel passato. Io tante cose che faccio le ho apprese dai maestri di sci, gli allenatori del Circolo Sciatori Madesimo, da mio padre, da mia madre. Sono la brutta copia di tutte queste cose».

La maglia di campione nazionale italiano, una sorta di oggetto sacro per il ciclismo nostrano, ha debuttato pochi giorni fa allo Swatt Crit di Lainate. Si tratta di un evento amatoriale, organizzato dallo Swatt Club con l’idea di abbattere le barriere: professionisti e amatori tutti assieme, la differenza – se c’è – la detterà la strada. Per una precisa scelta organizzativa, non ci sono classifiche. C’è il podio, fine. «Non voglio che un amatore dica “ho fatto 15° allo Swatt Crit”, che ragionamento è? Ciò a cui diamo valore è il podio, primo, secondo e terzo».

È una scelta, continua Beretta, che si lega a com’è stato cresciuto nell’ambiente sciistico. «Lo Swatt Crit è come dovrebbero essere le gare tra i piccoli, anche nello sci. Pensa se le gare fossero tutte così, senza classifica stampata. Ci si ricorda solo che Francesco Carollo (un atleta dello Swatt Club, ndr) ha vinto tre Swatt Crit, non chi ha fatto quinto o settimo. Bisogna pensare a vincere, non ad abbassare i punti. Per forza che non arrivano i campioni: per tutta la vita costringi i giovani a pensare ai punti. Sai perché ti dico sta roba? Perché sciando ho dovuto imparare a frenare per le logiche dei punti e delle penalità FIS».

Ciò di cui parla coi suoi ragazzi che vanno in bicicletta, Beretta lo ha provato sulla sua pelle anni fa come sciatore. Continua Berry: «Io sono entrato in Nazionale di diritto, essendo tra i primi tre della classifica giovani. Ma per entrare in Nazionale sono regredito. A inizio stagione ho detto “ok punto a quello”. Ma ho fatto slalom frenando giusto per arrivare in fondo e fare qualche punto per il circuito istituzionale. Ecco come far rallentare una persona. E chissene importa di me Carlo Beretta, ce n’erano 15 più forti di me del mio anno, ma ti posso garantire che queste piccole cose fanno perdere molti talenti». 

La vittoria del campionato nazionale di ciclismo Beretta la dedica a «quella gente lì, non solo dello Swatt», a tutti i talenti trattati male, smarriti in un sistema cervellotico, oppure trovatisi fuori squadra da un giorno all’altro. Senza nemmeno una chiamata. Lo Swatt Club prova a fare le cose diversamente, mettendo al centro le persone, la comunicazione e il rapporto umano. «Ci dicono “siete invasati perché guardate i watt”, ma non è vero, siamo invasati perché guardiamo tutto, soprattutto il lato umano».

È quasi un flusso di coscienza quello di Beretta, che vale la pena riportare per intero e senza filtri.

«E sai cosa c’entra in tutto questo? E se vuoi scrivilo perché è giusto che lo scrivi. Siamo stati trattati malissimo come persone. Non solo io, tutti. Ricordo ancora adesso una telefonata di Matteo Joris, che tuttora lavora in Svizzera, mi fa: “Faccio di tutto per tenerti in Nazionale, ma l’anno prossimo vado in Svizzera”. L’unico che mi ha chiamato per dirmi che mi avrebbero lasciato a casa. E poi ti trovi scritto su Race che ti hanno lasciato a casa. Un mio amico, Stefano Baruffaldi, è stato trattato così. E come lui tanti talenti si sono persi. Se dovessero mettermi fuori dalla Nazionale senza dirmelo ora, che ho 33 anni, chissene frega, sono altre le cose a cui penso. Ma se fai una cosa del genere a un ragazzo che ha 17 o 18 anni gli fai un danno assurdo».

Stefano Baruffaldi © Drusciè Cortina

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