Sì, ma adesso?

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Ora che si sono sprecate le parole, il cordoglio, ora che si è scritto, parlato e commentato, cosa succede? Saremo capaci di ripartire da una tragedia, o forse meglio, dalle recenti tragedie, che hanno funestato il mondo dello sci alpino agonistico?
Saremo capaci di innescare un processo di cambiamento che possa perlomeno onorare la morte di questi ragazzi, magari salvandone altri in futuro?

Oppure ci perderemo nello scambio di accuse e difese, caccia alle streghe o mostri da sbattere in prima pagina?

Le cose da fare sono tante e il tempo non è molto, soprattutto in un Paese come il nostro che si appresta ad ospitare un evento globale come i Giochi Olimpici di Milano-Cortina 2026.
Per ora soffermiamoci però sulle ultime vicende.

Matteo Franzoso ©Pentaphoto

Credo che si debba sgombrare il campo dal possibile utilizzo della parola fatalità.

Nessuna fatalità, un atleta professionista, che fa parte della squadra nazionale e si allena per la Coppa del Mondo deve essere sereno di spingere al massimo delle proprie possibilità su un percorso di allenamento, e anche di poter osare oltre i propri limiti, perché è ciò che è richiesto per migliorarsi, è ciò che serve per fare il salto di qualità. Deve essere sereno e sapere che se cade per un suo errore ne può pagare le conseguenze. Lo dicono tutti, specialmente in questi giorni: «Eh, lo sci è pericoloso. Se decidi di fare discesa libera devi accettare una percentuale di rischio». Giusto, giustissimo. Ma un atleta questo lo sa, lo accetta, fa parte della sua vita. Quello che non è accettabile è che una caduta, una scivolata, un’internata, un’inforcata, possano tramutarsi in un impatto mortale perché la pista di allenamento non è sicura.

Si può cadere, rotolare, spaccarsi ginocchia, gambe, avere traumi cranici seri e magari anche letali, problemi alla schiena. Fa parte del gioco. Vai ai 130 all’ora, la neve è dura, può succedere. Le sollecitazioni sono molto forti, le risposte dei materiali spesso imprevedibili. Però non si può sbattere contro staccionate, alberi, pali di metallo, muretti, strutture varie montate intorno alla pista. Questo non è accettabile. Non quando si fa un allenamento di una squadra nazionale di Coppa del Mondo.

Matteo Franzoso
Matteo Franzoso ©Pentaphoto

Ed è qui che subentra il tema della responsabilità.

Responsabilità di chi accetta di mettere a disposizione parte di un comprensorio sciistico per un allenamento di una squadra nazionale di discesa libera, ben conoscendone le dinamiche.

Responsabilità tecnica, di chi sceglie quella pista, la analizza e la reputa idonea a far scendere i suoi atleti. Responsabilità di chi traccia, che decide, sulla base delle norme e dei regolamenti vigenti di far passare gli atleti in certi punti, a certe velocità e determinando di conseguenza le possibili vie di fuga in caso di incidente.

SHIT HAPPENS – Appare evidente che in casi come quello di cui stiamo purtroppo discutendo da giorni qualcosa non è andato come avrebbe dovuto, se no semplicemente Matteo non sarebbe morto. Quella caduta avrebbe potuto costargli un crociato, una clavicola, una tibia, ma non la vita.

È proprio questa la differenza tra i rischi che sono insiti nello sci e le responsabilità di chi gestisce, organizza e supervisiona una gara o un allenamento.

Ci deve essere un direttore di stazione che ha valutato attentamente che la pista sia idonea e protetta per un allenamento di professionisti della discesa libera, ci deve essere un direttore tecnico che a sua volta ha esaminato la pista e l’ha ritenuta idonea allo svolgimento dell’allenamento.

Dal momento che queste persone danno il via libera – si assumono la responsabilità – allora tutto ciò che va oltre il limite dell’errore tecnico e dei danni generati da una caduta sulla neve non può e non deve succedere.

Troppo semplice dire che nello sci il pericolo è sempre in agguato. Non è così se le aree a rischio di impatto sono segnalate e protette in modo adeguato.

La dotazione di sicurezza c’è, in Italia ci sono aziende che sono un fiore all’occhiello nel settore. Bisogna vedere se c’è la volontà da parte delle località di investire in questo ambito, oppure si pensa che vada bene così com’è, come è sempre andata «che tanto non è mai successo niente».

Fare riferimento al passato è una trappola quando si parla di piste di allenamento o di gara: negli anni sono cambiati i materiali, la preparazione delle piste, la consistenza del fondo nevoso, le tracciature, la tecnica, la preparazione fisica degli atleti. Dove si è sempre passati senza problemi, probabilmente non è più possibile farlo, si arriva a velocità diverse, con i corpi sottoposti a sollecitazioni differenti. Queste sono analisi complesse, che richiedono professionalità, competenza e alla fine di tutto, assunzione di responsabilità.

Matteo Franzoso ©Alice Russolo

RESPONSABILITÀ PRECISE – Il termine che ritorna e si rincorre. Perché – attenzione – da parte mia e da parte nostra non c’è alcuna volontà di puntare il dito contro nessuno o cercare necessariamente dei colpevoli. Non sarebbe d’aiuto aggiungere tragedia a tragedia, con condanne, titoli di giornali e colpevoli. Il tristemente famoso ‘sbattere il mostro in prima pagina’, anche perché qui non c’è nessun mostro. Saremmo tutti felici di poter mettere via la parola responsabilità e tornare a maledire la fatalità.

Però sarebbe troppo facile e soprattutto riduttivo.
Queste ultime tragedie richiedono una profonda analisi, vere e proprie inchieste da parte delle autorità competenti, e vanno identificate le persone che avevano responsabilità nelle scelte che hanno portato a questi incidenti.

Dovessero essere ritenute colpevoli, vanno condannate. Al di là del valore delle persone in questione, che può essere altissimo, ma in questo caso non si è dimostrato tale e purtroppo le conseguenze sono state nefaste. Nel lavoro, in tutti i lavori, e nella vita in generale, chi sbaglia deve pagare. Questo non cambierebbe nulla per la famiglia di Matteo, che continuerà a convivere con il vuoto. Ma non renderebbe vano il sacrificio di una vita perché si trasmetterebbe chiaro il messaggio che non si può essere leggeri con la vita dei ragazzi, che ci sono responsabilità ben precise e chi se le assume deve sapere che rischia severe conseguenze se non dovesse dimostrarsi attento, competente, aggiornato, minuzioso nello svolgere il proprio lavoro.

Si deve valutare e se ci sono percentuali di dubbio, tornare indietro, rinunciare. Se le condizioni non sono perfette per allenarsi e gareggiare non succede nulla, si torna a casa, si fa altro. Perché è vero che the show must go on, ma nessun atleta deve sentirsi in dovere morale di rischiare oltre il lecito per paura di non essere abbastanza, delle possibili ripercussioni, di essere messo fuori squadra o considerato fifone o non abbastanza motivato.

Matteo Franzoso ©Pentaphoto
Matteo Franzoso ©Pentaphoto

PROPOSTE E POSSIBILI INTERVENTI – Messi a posto questi paletti fondamentali, la FIS deve aprire con priorità massima un tavolo serio sull’argomento, perché notizie come questa, che diventano rapidamente globali, minano la fiducia delle famiglie, rischiano di avere pesanti ripercussioni su chi deve decidere se iscrivere i figli a uno sci club e fargli fare questo tipo di vita. E di riflesso, mette a rischio il futuro del nostro sport. È proprio di ieri una lettera aperta che invita gli addetti ai lavori a intraprendere questo percorso. I punti all’ordine del giorno devono essere tanti, e mi limito alla Coppa del Mondo: il calendario gare esagerato, con troppi spostamenti, congestionato e senza possibilità di recuperi o spostamenti, che spesso obbliga a gareggiare quando le condizioni sono al limite. I materiali e le tracciature devono essere riconsiderati attentamente, per evitare di portare il fisico degli atleti all’estremo alla ricerca di spettacolarizzazione e pericolo, in fondo parliamo di sci agonistico e non sci estremo.

Gli atleti devono avere molta più voce in capitolo e devono togliere la testa dalla sabbia, esprimendo le proprie opinioni senza paura delle possibili conseguenze. E poi c’è tanto altro: il dialogo con gli impiantisti deve svilupparsi molto di più, affinché lo sci agonistico smetta di essere considerato un problema, un fastidio nelle località sciistiche. Sembra che avere piste sicure e chiuse per gli allenamenti siano un sacrificio insostenibile per le località. Le famiglie con i figli allo sci club sono una risorsa importantissima per una località, non un problema: portano soldi, comprano stagionali, acquistano case, frequentano negozi e ristoranti. È al lavoro anche la Fisi, che nei giorni scorsi ha svolto un consiglio straordinario e avanzato due proposte, una internazionale e una nazionale.

Lo sci agonistico necessita di spazi e piste attrezzate e sicure per davvero. Speriamo che dopo i Giochi una parte delle installazioni di sicurezza restino sul territorio e vengano destinate anche alle piste strategiche per gare e allenamenti nei vari comprensori sciistici, a favore della crescita del movimento e sgravando i club da costi e oneri lavorativi (e responsabilità) della messa in sicurezza dei tracciati. Questo darebbe senso davvero all’ospitare un evento globale come le Olimpiadi, molto più che costruire strutture faraoniche che poi, inevitabilmente, saranno sotto-utilizzate o abbandonate del tutto. Vivendo in provincia di Torino, ho degli esempi davanti agli occhi tutti i giorni.

I funerali di Matteo Franzoso

IN CONCLUSIONE – Le tragedie, ahinoi, fanno parlare. Portano a galla i problemi, li sbattono sotto gli occhi di tutti. Non si tratta di strumentalizzare la morte di un ragazzo, ma di cogliere l’attimo per fare aprire gli occhi a chi ha la possibilità di fare qualcosa e intervenire. Questo ritengo sia doveroso, nel rispetto di Matteo, ma anche di Matilde e tutti gli altri ragazzi che abbiamo dovuto piangere. Ma anche nel rispetto delle migliaia di bambini, ragazzi, atleti professionisti che ogni giorno dell’inverno infilano gli scarponi e il casco per andare ad allenarsi e gareggiare.

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