Il silenzio dei big

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Nei giorni scorsi ho letto il post che ha pubblicato Sofia Goggia sui suoi canali social. Parlava del coraggio necessario a tornare in pista, a ricominciare una routine che poi è la vita degli sciatori professionisti: allenamenti, programmazione, trasferte.

Si è espressa bene, Sofia, come sa fare – sta diventando un’ottima comunicatrice e nello sci ce n’è bisogno – facendo percepire il reale momento di difficoltà che sta attraversando l’ambiente dello sci alpino italiano, che nel giro di due anni ha visto andarsene due giovani ragazzi per tragedie accadute durante gli allenamenti.

Il suo post, però, mi ha anche stimolato una riflessione.

È un po’ come se l’ambiente degli atleti di alto livello fosse rimasto sì turbato da questo incidente, ma che sotto sotto la morte di Matteo sia stata derubricata come disgrazia e piano piano tutto tenda a tornare alla consuetudine. Appunto, ci sono programmi da rispettare, la prima gara di Sölden incombe, stiamo per iniziare la stagione olimpica e dunque non si può tralasciare nessun dettaglio.

Ho cercato online, ho spulciato social e quotidiani: ho trovato messaggi di cordoglio, parole di affetto e di vicinanza alla famiglia di Matteo Franzoso, ma quasi nessuna presa di posizione netta, nessun richiamo deciso a fare della sicurezza una vera priorità.
Mi sarei aspettato una reazione più compatta, una voce comune soprattutto dai big. È morto uno di loro, durante un allenamento, e — lo ripeto — non per una fatalità. Mi sarei aspettato che si organizzassero, che pretendessero risposte concrete, magari arrivando a minacciare di non prendere il via a Sölden se la FIS e gli organizzatori non avessero mostrato cambiamenti reali per tutelare la salute e l’incolumità degli atleti.

Invece no. Le tragedie, se non colpiscono direttamente, restano qualcosa da piangere, da commemorare e poi da rimuovere, come se il dolore dovesse durare giusto il tempo del lutto. Mi sarei aspettato un’onda lunga di riflessione, un gesto collettivo, un segnale forte: un blocco delle prime gare, una riunione degli atleti, una richiesta pubblica di revisione dei protocolli di sicurezza. Ma non è accaduto nulla. Dopo qualche messaggio di cordoglio, il mondo dello sci ha ripreso ad allenarsi. Le stesse piste, gli stessi ritmi, qualche rete in più. Tutto qui.

Sui social, Mikaela Shiffrin ha scritto: “My heart breaks. We need change. Safety must come first, always.” Marco Odermatt, intervistato dalla RSI, ha dichiarato: “È difficile accettare che succeda in allenamento. Speriamo che la FIS e le squadre trovino soluzioni concrete”.
E Aksel Lund Svindal, oggi voce libera e ascoltata, ha commentato alla NRK: “Lo sport non può diventare un macabro spettacolo. Dobbiamo smettere di pensare che correre più rischioso significhi correre meglio”.
Ho citato qualche esempio, ce ne sono stati anche altri, ma il tenore è sostanzialmente questo.

Insomma, la Coppa del Mondo ripartirà come sempre. Nessuna gara rinviata, nessuna discussione pubblica, nessun atto collettivo di protesta. La FIS ha diffuso un’open letter in cui ribadisce che “la sicurezza è la nostra priorità”, ma a bordo pista l’atmosfera è quella del the show must go on.
Forse è questa la vera notizia: il silenzio dei big, la rapidità con cui lo sport più spettacolare della montagna torna alla normalità. Come se la morte di un collega non bastasse più a fermare la macchina. Come se tutto fosse già stato archiviato sotto la voce “fatalità”.

Eppure in altri sport non è successo questo e ho voluto andare un po’ più a fondo per vedere se le reazioni dei protagonisti sono paragonabili a quelle degli sciatori.
Perché le tragedie che colpiscono gli sportivi non sono mai episodi isolati. Ogni incidente fatale in gara è una scossa che arriva fino al cuore di una disciplina e a volte la cambia per sempre. La morte di un atleta non è solo un lutto personale, ma un grido collettivo che spinge a rivedere regole, protocolli di sicurezza e responsabilità. Dalla Formula 1 al ciclismo, dalla MotoGP al football americano e alla boxe, la storia insegna che la voce degli atleti, unita nel dolore, può trasformare la tragedia in un motore di cambiamento. E che la rapidità con cui quella voce si fa sentire decide spesso la velocità del cambiamento.

Nello sci, invece, questo meccanismo sembra incepparsi. La morte di Franzoso ha riaperto una domanda che lo sport si pone da tempo: chi rappresenta davvero gli atleti di Coppa del Mondo? Chi ha il potere – e il coraggio – di parlare per loro quando serve?

Formula 1: il weekend di Imola 1994

Il 30 aprile 1994, durante le qualifiche del Gran Premio di San Marino, Roland Ratzenberger perde la vita alla curva Villeneuve. Il giorno dopo, Ayrton Senna muore al Tamburello. È il fine settimana più oscuro della Formula 1 moderna. Damon Hill, suo compagno di squadra, dichiarò alla BBC: “Abbiamo visto due piloti morire in due giorni. Non possiamo andare avanti come se nulla fosse.”
Michael Schumacher, allora giovane promessa, ricordò anni dopo in un’intervista a RTL: “Dopo Imola la nostra percezione del rischio cambiò per sempre. Tutti capimmo che la sicurezza doveva diventare parte del nostro lavoro.”

Nei giorni successivi i piloti si riuniscono d’urgenza nella GPDA (Grand Prix Drivers’ Association), ricostituita proprio in quelle ore. In pochi giorni la FIA introduce chicane temporanee, amplia le vie di fuga, limita la velocità in pit-lane e avvia il programma di ricerca che porterà, nel 2003, all’introduzione obbligatoria del sistema HANS (acronimo di Head And Neck Support). Da quel momento la GPDA diventa un soggetto permanente e indipendente: un vero sindacato dei piloti, capace di dialogare e contrattare con la federazione.

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MotoGP: la morte di Marco Simoncelli

Il 23 ottobre 2011, a Sepang, Marco Simoncelli perde la vita in un incidente che coinvolge Valentino Rossi e Colin Edwards. Rossi, intervistato dalla RAI, riuscì solo a dire: “Ho perso un amico, un fratello. È uno dei giorni più tristi della mia vita.”
Casey Stoner, allora campione del mondo, spiegò a Motorsport Magazine: “Non potevamo far finta di niente. La sicurezza doveva diventare la priorità assoluta di tutti.”

Nei giorni successivi, la FIM e la Dorna convocano riunioni straordinarie con piloti e team per rivedere protocolli e tracciati. Da quella stagione la Safety Commission dei piloti diventa un organo stabile: si riunisce ogni venerdì di Gran Premio, con la possibilità di chiedere modifiche immediate a un circuito. È un modello di confronto riconosciuto, la forma più efficace di rappresentanza collettiva mai costruita nella MotoGP.

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Ciclismo: da Fabio Casartelli a Wouter Weylandt

Il 18 luglio 1995, nella 15ª tappa del Tour de France, Fabio Casartelli cade in discesa e muore sul colpo. All’epoca il casco era facoltativo. Il giorno dopo, il gruppo decide di tagliare il traguardo compatto, senza sprint. Richard Virenque dirà a L’Équipe: “Quando Fabio cadde, tutti capimmo che era il momento di cambiare.”
Otto anni dopo, la morte di Andrey Kivilev alla Parigi–Nizza porta l’UCI a rendere obbligatorio il casco per tutti i professionisti.

Nel 2011, la morte di Wouter Weylandt al Giro d’Italia provoca un’altra reazione corale: la tappa successiva viene percorsa a passo lento, senza competizione. David Millar spiega a The Guardian: “Oggi non era un giorno per correre. Era un giorno per ricordare Wouter e ricordarci perché lo facciamo.” Da quella stagione l’UCI rivede i protocolli di sicurezza e i tempi di intervento medico.

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Nel frattempo, i ciclisti si sono dati un’organizzazione stabile: la CPA (Cyclistes Professionnels Associés), sindacato internazionale riconosciuto ma indipendente, oggi guidato da Adam Hansen. La CPA negozia salari minimi, assicurazioni, protocolli meteo e diritti contrattuali. È la dimostrazione che un’organizzazione autonoma può trasformare il dolore in tutela strutturale.

NFL e boxe: quando il sistema reagisce

La morte di Mike Webster, ex centro dei Pittsburgh Steelers, nel 2002, svela al grande pubblico gli effetti devastanti delle commozioni cerebrali ripetute. Gli ex compagni Jack Ham e Terry Bradshaw denunciano il problema in diretta televisiva. La pressione dei giocatori porta nel 2011 all’introduzione del Concussion Protocol, con esami medici indipendenti e rimozione immediata dal campo in caso di trauma cranico.

Nell’agosto 2025, in Giappone, la morte dei pugili Shigetoshi Kotari e Hiromasa Urakawa durante incontri titolati scuote il mondo della boxe asiatica. La Japan Boxing Commission annuncia nuove regole su idratazione e taglio del peso, mentre la OPBF riduce da 12 a 10 i round nei match per il titolo in Giappone. Anche qui, la pressione collettiva porta riforme immediate.

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E nello sci?

A differenza di quasi tutti gli altri sport estremi, nello sci alpino non esiste un’associazione indipendente di categoria. La rappresentanza degli atleti è affidata alla FIS Athletes’ Commission, un organo interno composto da sedici membri eletti per il ciclo 2023-2027 e co-presieduto da Verena Stuffer e Alex Fiva. Quattro di loro siedono nel Consiglio FIS, ma si tratta pur sempre di una voce “di casa”.

Negli anni Duemila ci fu un tentativo di cambiare rotta: l’ex atleta Kilian Albrecht fondò l’International Ski Racing Association (ISRA), che cercava di dare agli sciatori una voce comune. “The goal is to have a union-like body that can negotiate on behalf of the athletes,” spiegò Albrecht nel 2013 a SkiRacing.com. L’iniziativa raccolse consensi tra campioni come Hirscher e Svindal, ma non ottenne riconoscimento ufficiale e si spense.

Oggi, dunque, gli sciatori non hanno un sindacato. Non possono negoziare premi, diritti televisivi o protocolli di sicurezza. Le loro richieste passano per la FIS Athletes’ Commission, che può consigliare ma non decidere.

Dopo la morte di Franzoso, la FIS ha pubblicato un’open letter impegnandosi a rivedere protocolli e pratiche di sicurezza. “The pursuit of performance must never eclipse the priority of safety,” si legge nel testo ufficiale. È un gesto necessario, ma non basta.
La storia recente di altri sport dimostra che il cambiamento vero nasce dal basso, quando gli atleti si organizzano e parlano con una sola voce. La GPDA, la Safety Commission, la CPA: tre modelli diversi ma un principio comune — non delegare la propria sicurezza.

Lo sci ha oggi l’occasione, dolorosa ma decisiva, di colmare questo vuoto. Servirebbe un organismo autonomo, finanziato dagli atleti, capace di confrontarsi con la FIS da pari a pari; servirebbe una ritualità del dialogo, come la riunione del venerdì in MotoGP, o standard misurabili come quelli del ciclismo.
Finché questo non accadrà, la voce degli sciatori continuerà a farsi sentire solo dopo le tragedie — quando il lutto diventa legge, ma la legge arriva sempre un po’ troppo tardi.

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