Svezia, terra di slalomisti

Dopo la medaglia d’oro di Giuliano Razzoli otto anni fa ecco quella con André Myhrer, quali sono le differenze?

«Sono due medaglie uguali, l’oro olimpico è il più grande risultato per un atleta e aver condiviso questi due trionfi è stato straordinario. Abbiamo lavorato parecchio per l’appuntamento coreano».

Come avete pianificato l’avvicinamento alle gare  di YongPyong?

«La Federazione in estate ha fatto tre riunioni sui Giochi comunicando allo staff tecnico l’obiettivo, fissato in tre medaglie, due di queste ovviamente sarebbero dovute arrivare dallo slalom, la disciplina che rientra nella cultura della Svezia. Al Nord tante località hanno uno skilift e una pista, loro tracciano e ci danno dentro con lo slalom. Posso dire che gli ori di André Myhrer, così come quello di Frida Hansdotter, sono figli di una programmazione mirata. Avevamo la responsabilità di fare bene e direi che abbiamo centrato l’obiettivo».

Avevi studiato la pista Rainbow?

«Ero già stato lì nel 2006 e conoscevo il pendio, una pista metà e metà; una trentina di porte sul muro, altrettante sul piatto. Myhrer va forte sui piani, ha le stesse caratteristiche di Razzoli. Sul filante e sul dritto è capace di sciare in continua accelerazione».

Come hai preparato lo slalom olimpico?

«Questa gara era nella nostra testa da tutto l’inverno: siamo arrivati con podi e piazzamenti importanti e quindi in forma. Soprattutto c’è stato un lavoro incredibile sui materiali e siamo venuti in Corea subito, in anticipo rispetto alle altre squadre (Gross per esempio è arrivato il 15, ndr). Abbiamo testato oltre trenta paia di sci e a YongPyong abbiamo finalizzato anche in questo senso, arrivando con un parco mezzi ampio e nove modelli da scegliere».

Anche in slalom sono così importanti gli sci?

«Certamente, è fondamentale, solo con una miscela di ingredienti si riesce a ottenere il risultato. E anche per le porte strette è importante trovare il giusto materiale:
Marcel Hirscher è un esempio in questo, noi abbiamo cercato di dare un’importanza notevole allo studio e alle prove dello sci per questa neve facile e aggressiva».

Avete lavorato anche sull’approccio psicologico?

«Sì, ho parlato davvero tanto questo inverno con Andre. Ci gasavamo a vicenda, ci davamo le motivazioni necessarie per lavorare con la massima concentrazione e allo stesso tempo serenità. Per me era un altro traguardo professionale, per lui la medaglia della vita anche perché in Cina probabilmente non ci sarà. Puntavamo al titolo perché è quello che ti cambia la vita. Il bronzo lo aveva conquistato proprio a Vancouver quando vinse Razzo».

In questi due anni hai apportato modifiche tecniche a questa squadra?

«Loro sono scorrevoli, sanno fare velocità cercando sempre la pendenza. Hanno una sciata moderna, ma anche lacune tecniche che ho cercato di colmare lavorando in particolare sull’anticipo del taglio. Materiale, tecnica in curva, capacità di far correre lo sci e approccio mentale hanno portato a questo trionfo».

E Mattias Hargin e Kristoffer Jakobsen?

«Con Hargin forse abbiamo fatto qualche errore nella scelta dei materiali, mentre Jackobsen ha fatto una grande gara, settimo con il 35. Ha avuto il giusto atteggiamento, perché ripeto, sentivamo in modo particolare questa gara. È davvero un talento, vedrete che in gigante e in slalom crescerà ancora parecchio».

E il futuro Jacques? Che progetti hai?

«Ho un contratto ancora di un anno e ci sono i Mondiali in Svezia ad Aare. Abbiamo un altro grande obiettivo da raggiungere, poi si vedrà. Abbiamo un’altra sfida adesso, le gare iridate in casa sono un’occasione da non lasciarsi sfuggire».

Perché i nostri slalomisti che hai allenato sono in difficoltà?

«Parlo di quelli che conosco meglio: sono convinto che Stefano Gross tornerà quello che tutti conosciamo; Manfred Moelgg ha fatto il capolavoro a metà, ma è sempre competitivo. Giuliano Razzoli fa troppa fatica, me lo immaginavo che potesse recuperare con lentezza da un infortunio, ma non così».

Hai parlato di metodo e programmazione, cosa non ti piace della Svezia?

«Che alle sette sono tutti in camera, alle sei e mezza massimo cenano. La sera sono spesso solo, noi mediterranei siamo diversi. Un aperitivo, una partita a carte, una chiacchierata, una birra dopo cena. Ma è questione di culture».

Articolo tratto da Race ski magazine 149, uscito in edicola nel mese di marzo 2017. Se vuoi acquistare una copia arretrata, visita questo link ACQUISTA COPIA

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