Stefano Dalmasso, storia infinita di successi

Ci sono momenti che non dimenticherai mai. Sintetizzano una vita, realizzano un sogno, dimostrano che ce l’hai fatta. Per Stefano Dalmasso, classe 1948, uno di questi è una mattina di ottobre di quindici anni fa a Parigi. Ospite all’Eliseo dal presidente Jacques Chirac con Jean-Pierre Vidal e Sébastien Amiez, per festeggiare l’oro e argento olimpico di Salt Lake City. «Sono queste le cose che contano, che poi ti rimangono dentro», dice Steu.
Una vita in pista in ogni angolo del pianeta, iniziata nel 1970 come allenatore dello sci club Limone, un lungo viaggio che continua ancora oggi con lo Ski College. «Facevo l’elettricista, vengo da una famiglia normale – dice Dalmasso -, i primi anni da allenatore sono stati a mezzo servizio fino al 1973, quando sono entrato in squadra B, grazie alla chiamata dell’allora direttore tecnico Mario Cotelli». Il cuneese fu inserito nello staff tecnico insieme al suo atleta Giorgio Dalmasso, ritenuto una promessa a tal punto da portarlo direttamente in Coppa Europa. Quarant’anni fa una cosa praticamente impossibile.


Per Dalmasso si apre una lunga avventura nella federazione italiana; con la promozione del responsabile Alfons Thoma in Coppa del Mondo, Steu prese la guida del team fino alla stagione 1977-1978, anno in cui diventò il responsabile della squadra A femminile di slalom e gigante fino ai Mondiali di Bormio del 1985. Sono gli anni magici della ‘valanga rosa’, inverni di vittorie e podi, medaglie olimpiche e iridate. «Nel 1984 Paola Magoni vinse l’oro a Sarajevo, un coronamento di una avventura straordinaria, lo sci era diventato uno sport se non popolare, comunque seguitissimo». Sono momenti di gloria per le donne dello slalom, periodi in cui un terzo del primo gruppo era tutto italiano: Claudia Giordani, Ninna Quario, Daniela Zini, Wilma Gatta, Wanda Bieler, Piera Macchi.


«La Magoni era più giovane ed entrò in squadra più tardi – aggiunge il coach piemontese -, era davvero costruita per i grandi eventi, una macchina. Dopo l’oro ai Giochi fu bronzo subito dopo ai Mondiali di Bormio». Erano gli anni del confronto-scontro in squadra, delle grandi rivalità. «Goggia-Brignone oggi, Zini-Quario ieri. Giusto così, la rivalità, se rimane in certi limiti senza sfociare in scorrettezza, è motivo di crescita, motivazione, soprattutto aspetto mediatico fondamentale. Poi c’è sempre chi riesce a cavalcare questo aspetto, chi invece patisce di più». Terminata l’esperienza trionfale con le donne, Dalmasso è passato con il team maschile di Coppa Europa fino alla primavera del 1988, poi si trova con il contratto in mano per andare in Francia. Il presidente FISI Arrigo Gattai si mise di traverso perché non voleva fare a meno del limonese e allora gli offrì un biennale da responsabile in Coppa del Mondo con gli uomini. Ma con l’anno olimpico di Albertville, arriva il passaggio con i transalpini. «Dopo quello con la valanga rosa, un altro periodo importante della mia carriera: dodici anni con gli slalomisti francesi – prosegue Steu -, quelli della pazzesca doppietta d’oro Vidal-Amiez e delle vittorie a fianco di fuoriclasse come Patrice Bianchi, Pierrick Borgeuat e Yves Dimier». Dodici lunghe stagioni sempre al vertice che sono stati per Dalmasso la consacrazione definitiva, grazie anche a quella Coppa del Mondo di slalom vinta da Amiez davanti ad Alberto Tomba. Poi ancora la nazionale italiana con le slalomiste azzurre e il primo podio di Manuela Moelgg nel 2005, quindi due stagioni come coordinatore dell’attività giovanile, durante la presidenza di Giovanni Morzenti. La storia di Stefano Dalmasso è fatta anche di Children, Giovani e sci club. «Esperienze utili per la formazione professionale, come quel biennio al Radici dove ho allenato Andrea Testa e conosciuto Sofia Goggia. O come questi anni con lo Ski College Limone, una realtà che ho rifondato e a cui ho dato una linea agonistica chiara, portando in squadra nazionale Michele Gualazzi, Costanza Oleggini e Luca Riorda». Dalmasso adesso dà anima e corpo per il team limonese.

Di pensione non se ne parla nemmeno, Steu ha ancora voglia di trapano e radio, di cronometro e video. E di dare consigli: «Pochi, perché l’allenatore deve parlare poco e di tecnica, a qualsiasi livello. Tutto il resto è in secondo piano per me quando ti confronti con un atleta». Ma il suo credo oggi è anche di filosofia e politica sportiva.
«Aver fatto tutto nella mia vita professionale, mi permette di essere oggettivo e avere il giusto equilibrio nei confronti di club, atleti, genitori e tecnici. In giro ci sono troppi allenatori che illudono, raccontano frottole su scenari e traguardi irraggiungibili, falsificano la realtà, vivono di aggiornamenti a tavolino, ma non hanno mai visto una gara di alto livello in pista». Per Dalmasso ognuno deve fare il proprio lavoro, senza inventarsi nulla. «Non si fa sci club solo per arrivare in squadra nazionale, ci sono tanti altri aspetti che nobilitano il fatto di gareggiare». L’ultima stoccata è sull’abbandono nella categoria Giovani. «Iniziamo a mettere un punteggio FIS in gigante per accedere al corso maestri, così vedrete che allontaneremo questo fuggi, fuggi».

Stefano Dalmasso ha vissuto periodi diversi, ere differenti addirittura. «Sono stati anni difficili gli ultimi dieci, di crisi economica e soprattutto di disinteresse verso lo sci, anche per l’abbandono dei media. Ora vedo un inizio di inversione di tendenza grazie all’entusiasmo delle recenti vittorie. Successi in Corea ai Giochi potranno accelerare ancora questo trend, anche se quegli anni non torneranno mai, all’epoca lo sci era la moda, una novità». Una carriera infinita, cinquant’anni da allenatore, una passione ancora viva. Alla ricerca, per dirla proprio come Steu, di quelle cose che ti rimangono dentro.

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