Avevamo incontrato Petra Vlhová due anni fa allo Stelvio. Vi riproponiamo il servizio uscito sul numero cartaceo di Race Ski Magazine.
Avete presente Peter Sagan? Sì, quello che va forte in bicicletta ed è stato anche campione del mondo. Beh, non è lui l’atleta dell’anno in Slovacchia, è Petra Vlhová. Lei dice di no, io lo sono d’inverno, lui d’estate, e poi non ci sono tanti atleti da noi: di fatto, è una star nel suo paese. Vi ricordate i problemi di volo per raggiungere i mondiali in Svezia? Vlhová & company li hanno risolti, volando con il presidente slovacco sull’aereo presidenziale slovacco. Ma non era un team con poche risorse? Tutto è cambiato quel giorno. Il 28 dicembre 2018 a Semmering. Quando Petra ha vinto in gigante. Un po’ come tutti gli sportivi dell’est Europa, anche lei usava lo stesso sistema all’infinito o quasi. Ripetere, ripetere e ancora ripetere lo stesso schema di allenamento. E a forza di fare (con talento sia chiaro…) la vittoria in slalom in Coppa del Mondo era arrivata. Il gigante è un’altra cosa, è come entrare nell’élite dello sci. In Austria quel giorno è cambiato tutto o quasi per Petra. Poi di successi ne sono arrivati altri, dallo slalom di Flachau, alle medaglie mondiali in Svezia. Ma quel giorno, beh quel giorno, Petra Vlhová è come se fosse entrata in club esclusivo. E tutta la Slovacchia ha vissuto la stessa sensazione.
Così è esplosa la Vlhová-mania. Se mai ci fosse un festival della canzone slovacca state pur certi che sarebbe stato interrotto per una manche di Petra. Se cammina per le vie di Bratislava, arriva sicuramente in ritardo perché tutti la fermano per un selfie. Lei vive ancora a Liptovský Mikuláš, vicino a Jasna, dove ha iniziato a sciare, a quasi trecento chilometri dalla capitale, ed è molto orgogliosa di questo, ma i tifosi arrivano anche lì, magari in tranquillo pomeriggio d’estate per intonare cori sotto casa e sventolare bandiere. E lei scende tranquillamente e firma autografi a tutti, anche se era quasi pronta per andare a dormire. La vedi negli occhi quando parla del suo paese. «Mi piace l’Italia, ma la Slovacchia è un’altra cosa». Non ha scelto di trasferirsi chissà dove, viaggia in mezzo mondo, ma alla fine la comfort zone è la sua baita a bordo lago in mezzo ai monti Tatra.
Sono arrivate le copertine dei giornali slovacchi, le pubblicità, le comparsate in televisione, ma vive con lo spirito di una ragazza che è ancora in un comitato regionale. Non una superstar. Che non si preoccupa tanto del look quando è al lavoro: state pur certi che a cena prima di una gara scende in tuta e ciabatte. Meglio mezz’ora di riposo che di trucco.
Non ci sono manager che le dicono cosa fare o come presentarsi; il suo staff è la sua famiglia, papà Igor in primis e il fratello Boris, che si divide tra gli impegni nell’azienda di casa e la Coppa del Mondo dove la segue come un’ombra. «La mia vita è cambiata parecchio, ma sono rimasta la stessa. E devo ancora lavorare parecchio». Questa è sua filosofia. Quella del martello Livio Magoni. «Ai Mondiali abbiamo fatto tre medaglie, ma ne abbiamo perse due. E poi ci mancano 800 punti dalla Shiffrin», le ha detto a fine stagione. Altro che complimenti. Arrivare al limite, sempre. Da quattro anni sono insieme, le ha cambiato non solo il modo di allenarsi sulla neve. Nell’ultima estate per esempio, si è dedicata a canoa e tennis: Livio ha visto che poteva servire per sviluppare la parte alta del corpo in un caso o gli spostamenti laterali nell’altro. Stilisticamente non sarà perfetta mentre pagaia o colpisce la palla, ma poco importa, conta che faccia quei particolari movimenti che servano per lo sci, mica per la canoa o il tennis. Le ha piazzato in mezzo anche un mezzo Ironman e le ha detto di preparalo da sola: alla fine poi il giorno della gara Petra era a letto per l’influenza e i triathleti sono stati tutti gli altri del team. Già, perché lo spirito di gruppo deve essere al primo posto: tutti partecipano a tutto. E Petra in questa situazione si trova a suo agio, come coccolata, ma anche responsabilizzata in quello che fa.
Arrivava da una mentalità di tantissime bastonate sui pali e basta, un sistema che l’ha portata a vincere in slalom a 19 anni, ma voleva di più. Ha deciso di cambiare e ha scelto Livio Magoni. Il primo allenamento insieme allo Stelvio non se lo dimentica: lei è arrivata con lo sci da slalom e basta, lui le ha portato anche un paio da telemark e uno da superG. Cultura del lavoro e tecnica c’erano, voleva una mentalità diversa. «Avrei potuto vincere sicuramente ancora, ma sarei rimasta come altre ottime sciatrici, a me serviva un sistema per vincere di più. Migliorare la tecnica in ogni situazione».
L’obiettivo della prima stagione insieme è stato quello di entrare nei trenta in gigante, non la strada più semplice di confermarsi in slalom. E adesso? «Un po’ di pressione in più c’è lo ammetto, ma vorrei fare un passo avanti ancora». Livio l’obiettivo stagionale lo avrà detto come sempre a inizio anno, ma non ce lo dice. Lui con i numeri ci vive: si mette un voto sotto a Mike, il coach della Shiffrin, dà un voto in meno anche a Petra rispetto a Mikaela, considera alla pari il resto dello staff. Se ha ragione lui la Coppa del mondo sarà ancora della statunitense (ma con grande onestà intellettuale mette anche le azzurre che ha allenato tra le grandi protagoniste) e allora se l’obiettivo della slovacca fosse una coppetta di specialità? Se succede in Slovacchia sarebbe festa nazionale.
Livio, the hammer
«Magari non sono simpatico, ma sono fatto così». Livio Magoni è nella sua dimensione quando si trova alla guida di un team privato. Come è successo con Tina Maze, come poteva accadere con qualche azzurra. Come tutti i coach del mondo apre il computer, analizza video, anche quelli di atlete che partono con numeri alti, ma che a lui interessano per la sciata, poi però controlla ogni sera le classifiche delle Fis, maschili e femminile si intende, per capire e poi magari andare a vedere quali siano gli atleti emergenti. E cosa poter imparare. Alla fine, però, la cosa più importante sono i suoi taccuini rossi dove si segna tutto, ma proprio tutto quello che è successo, dal primo allenamento all’ultima gara. Poi ci pensa su, ci ragiona e prova a trovare soluzioni diverse. Un po’ per tutto. Ha trovato un accordo con le stazioni intorno a Vipiteno che ospiteranno gli allenamenti invernali di Petra e della nazionale svedese, e lui cosa ha fatto? È andato dall’allenatore canadese della squadra di hockey per organizzare un allenamento sul ghiaccio per Petra per le curve, l’incremento della velocità o la pattinata in partenza. Non saranno specifici per lo sci, ma perché no? Guarda al tennis e cerca un confronto diretto: già con Tina Maze aveva scelto un uomo come sparring partner, adesso c’è Fabian Bacher per Petra.
«Nell’ultima stagione siamo arrivati oltre i 1000 punti, ma non è bastato. Dobbiamo crescere ancora e arrivare al limite». Nel suo lavoro si mette in gioco sempre: ha osservato il lavoro di mamma Shiffrin, papà Hirscher, Ante Kostelic, ha concluso che il team privato o comunque un mini-team sia la soluzione migliore. Non sempre è stato così e allora il dubbio è emerso nella sua testa, sono io fuori strada, sono davvero un matto come dicono? «Con l’esasperazione che c’è adesso, bisogna essere maniaci con i dettagli per vincere e allora ci puoi riuscire solo con un atleta, massimo tre, non con otto. La storia dello spirito del gruppo lasciamola da parte, noi siamo uno sport individuale».
I dettagli che fanno la differenza, si diceva. Lui che vinto uno slalom sotto la pioggia, facendo gareggiare Tine Maze con gli occhiali da motocross. I parastinchi di Petra li ha voluti personalizzati, e non parliamo della grafica s’intende, li avrà fatti rifare tre volte sino a trovare quello giusto. Adesso sta puntando al bastone: spesso il braccio diventa un terzo appoggio e perché non inserire una sorta di lamina nel paramano per diminuire l’attrito? Ha anche brevettato un sistema con inserti di poliuretani sullo sci, con una sorta di flat per cambiare assetto in gara… «Sull’evoluzione dei materiali siamo ancora indietro. Se parli dei nostri test con chi li fa veramente, e sto parlando del motociclismo che conosco abbastanza bene, ci dicono che non fa testo quello facciamo, ma per arrivare al loro metodo servono soldi e i soldi li trovi solo da sponsor privati che hanno poi visibilità del loro team. Vedi, torniamo al discorso di prima: la strada è questa, dei team privati. Che però non sono ben visti, anzi direi di più, sono contrastati dalla federazione internazionale». Il presente è Petra e un po’ se la gode anche: «ma ci credi che anche a me a Gigi (Parravicini, ndr) hanno chiesto l’autografo?».