Hervé Barmasse, da promessa dello sci ad alpinista dopo l’incidente

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Hervé Barmasse è conosciuto in tutto il mondo per le sue imprese in montagna. Alpinista, guida alpina, divulgatore, un uomo che vive nella Valtournenche, con il Cervino davanti agli occhi. In età giovanile il valdostano sciava. E sciava forte, con un futuro davvero promettente, punteggi Fis da migliori tre al mondo in gigante, superG e discesa quando aveva 16 anni. E fino al giorno in cui è rovinosamente caduto durante una gara, andando a sbattere contro un paletto di ferro a bordo pista. 

Hervé, che cosa è successo?
«Andavamo quasi sicuramente a oltre cento chilometri orari, ho inforcato la porta con un braccio e sulla traiettoria della via di fuga c’era questo ostacolo. Una cosa che non doveva esistere. L’elenco delle conseguenze è lungo, pensavano fossi morto: politrauma generale, crociati, collaterali, menisco delle due ginocchia, trauma cranico, mandibole. Di tutto e di più». 

È da lì che ti sei avvicinato all’alpinismo?
«Ho tentato di recuperare perché lo sci era il mio primo amore. Una volta con il crociato rotto rischiavi di non tornare più, oggi tutto è cambiato. A me era andata bene, anche se avevo avuto delle conseguenze. Pe rimanere in attività, avevo iniziato ad andare in montagna, a intraprendere un percorso diverso, fatto di andatura più lenta». 

Un futuro sugli sci compromesso.
«Ho avuto grandi soddisfazioni fino a dove sono arrivato, poi da lì a dire che avrei potuto diventare un campione non lo so. Sicuramente in quegli anni ero ben piazzato con i punteggi». 

Hervé Barmasse
Hervé Barmasse ©Mathis Dumas

Veniamo ai continui incidenti sugli sci. Può esserci l’errore umano?
«Quello si, la caduta fa parte del gioco ma è necessario capire che cosa succede dopo. Ed è lì che spesso assistiamo alle tragedie».

Fatalità?
«Ci va una presa di coscienza che qualcosa non funziona, quello che si fa non è più abbastanza. È necessario pensare a nuove soluzioni: la vita di chi pratica lo sci deve essere tutelata e preservata. Prendiamo spunto dal mondo dei motori, se gli incidenti non portano a grandi cambiamenti, avremo fallito». 

Hai delle soluzioni?
«Almeno per le gare di velocità bisognerebbe pensare a piste di allenamento protette e attrezzate come in gara, perché non puoi pensare di scendere senza dare il 100%. Certo che si pone un problema di tipo economico: i costi sono davvero elevati, il sistema rischia di andare in crisi. In alternativa, per iniziare, si potrebbe fare un elenco di piste d’allenamento che soddisfino in termini di sicurezza i criteri decisi da un comitato composto delle nazionali di sci e dai rappresentanti degli atleti».

E sui materiali?
«Si può intervenire sugli sci se gli atleti danno il benestare e, dove possibile, intervenire sulle tracciature consapevoli che non tutte le piste lo permettono. Le aziende dovranno adeguarsi e aiutare in questo processo di cambiamento. Nello sci come nel ciclismo, siamo arrivati a un punto in cui è necessario raccogliere dati, fare analisi e capire quale strada intraprendere. Lo dobbiamo alle nuove generazioni». 

Il casco integrale?
«Una volta qualcuno lo utilizzava. Ma rispetto alla F1 c’è però una differenza: oltre al casco integrale un pilota ha un minimo di corazza attorno a sé. Lo sciatore invece è paragonabile al ciclista, puoi lavorare sul casco, ma in fondo sei nudo. Con una tutina o un body. E poi non dimentichiamoci che lo sciatore ha degli attrezzi attaccati ai piedi e i laccioli dei bastoni legati alle mani che spesso determinano cadute ancora più rovinose e disarticolate». 

Hervé Barmasse
Hervé Barmasse

Si può limitare la velocità?
«Non è facile e questo da quando lo sport esiste. Vale per qualsiasi disciplina, anche per l’atletica leggera che ha appena chiuso i Mondiali. Si tende a lavorare sempre più sulle tecnologie, a investire nella ricerca per migliorare la prestazione. E la prestazione significa business». 

È la stessa cosa nell’alpinismo?
«Già negli anni 30 era arrivato un alpinista americano che si è allenato per tentare il record sul Cervino, con canapone, scarponi da due chili, attrezzatura dell’epoca ovviamente. L’idea di andare sempre più veloce è nel DNA dello sport». 

E tu, che idea hai?
«Si sa, a me non è mai piaciuto questo tipo di approccio alla montagna. Non amo i record, e in fondo, quando mi alleno, anche io guardo l’orologio. Ti dà delle indicazioni chiare sul tuo stato di forma. Ma il mio fine in montagna non è mai il tempo, bensì la dimensione avventura». 

Che cosa pensi degli ultimi incidenti?
«Per parlare bisogna essere sul luogo e capire bene che cosa è successo. Le persone sono lì per fare del loro meglio. Ora è però necessario fare qualcosa, non possono più essere solo chiacchiere sui social. Ci devono essere professionisti che hanno competenze specifiche e rappresentanti degli atleti che si siedono intorno a un tavolo per trovare soluzioni».

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