«Oh, ma c’è ancora Testa?». Era quasi un ritornello negli ultimi anni della carriera. «C’erano allenatori che si domandavano perché mi presentassi alle gare, perché mi allenassi ancora. Non accettavano la mia volontà, e dei senior come me, di voler inseguire i nostri sogni. Se non eri del loro giro, della squadra nazionale o dei gruppi sportivi militari, eri considerato un un peso, un ingombro». Andrea Testa, che ha smesso di gareggiare quattro anni fa, motivato anche dall’addio alle gare di Stefano Baruffaldi, parla senza peli sulla lingua. E’ sempre stato un tipo schietto, diretto. Uno vero. Anni per cercare di emergere, rincorrere una qualificazione in Coppa Europa, lottare per avere risposte su un metodo di qualificazione, avere certezze sulle regole del gioco insomma. «Abbiamo navigato a vista per anni. Baruffaldi ricordava il fatto che non ci sono mai stati criteri chiari e univoci per le qualificazioni in Coppa Europa e in Coppa del Mondo. Chi non faceva parte dei soliti giri aveva un handicap, un punto a sfavore. Una limitazione che mi ha pesato, ma che allo stesso tempo mi ha formato e convinto che devi fare quello che ami, anche se sei scomodo».
Bergamasco classe ’91, Testa è uno di quelli che ha girato il pianeta per gareggiare, abbassare punti, mettersi in mostra. «La prima volta in Nuova Zelanda ero con Michelangelo Tentori. Al cancelletto di partenza c’erano le squadre nazionali, noi due senza nemmeno uno skiman. Ricordo di avere vinto uno slalom Fis a Treble Cone, di aver fatto 14 punti. Ma non bastava, avevo cercato una scorciatoia, dovevo ancora dimostrare dicevano, essere più continuo». Testa non dimentica quegli anni da senior. «Eravamo una pattuglia, in pochi contro tutti. Che avventure, quante battaglie. Abbiano smesso praticamente tutti e vedere un Baruffaldi a 29 anni che si qualifica in Coppa del Mondo e non essere più considerato è stato un brutto segnale per i più giovani. Quanti diranno se ha senso continuare alla prima difficoltà? Baru ha fatto bene a scegliere altre vie». Come Andrea del resto, sempre motivato, uno di quelli sempre a tutta. «Corrado Castoldii mi ha chiesto di voler allenare o Sk Racing Camp. Mi disse che non aveva mai lavorato con nessuno, la sua richiesta mi ha lusingato ed ho accettato subito. Ho iniziato per provare, adesso ho messo anima e corpo in questa esperienza. Abbiamo una impostazione di un team privato, seguiamo i nostri atleti a tutto tondo. Sul campo, tutto l’anno, ovunque. Ma c’è anche un lavoro mentale dietro, l’allenatore deve accompagnare il ragazzo non solo fra i pali o al video. Una guida, un angelo custode deve essere, plasmare l’uomo, non sono l’atleta. Voglio insegnare e rendermi disponibile su tanti aspetti che con me sono stati tralasciati».Il quartier generale del team a Bormio, dove gli atleti fanno base. C’è il lituano Andrei Drukarov, ventesimo nel gigante iridato di Cortina, Luisa Bertani, Alice Pazzaglia, Pietro Motterlini, Francesco ed Enrico Zucchini, Nicolò Pedroncelli ed Enrico Scacchi. Ognuno con le proprie sfide, obiettivi, sogni. Per alcuni il tesseramento con lo Ski Racing Camp, per altri affiliazioni differenti ma comunque in forza alla formazione diretta da Castoldi. «Diamo disponibilità completa, i programmi di allenamento possono variare in base alle condizioni dei ghiacciai. Testa ritorna sul sistema Italia: «iNon capisco questa rincorsa dei gruppi militari a concentrarsi addirittura sugli aspiranti. Ma a cosa servono allora i comitati o gli sci club? Cè un errore nei ruoli, sembra una caccia a prendere quello più giovane e ritenuto una promessa. Mai risultati? Negli ultimi anni non solo i senior, ma anche troppi junior lasciano prematuramente l’agonismo. Questa cosa deve fare riflettere. C’è un errore di mentalità, di approccio. Ci sono mille casi di atleti che maturano in ritardo. Vinatzer, Franzoni, Della Vite, quelli sono fenomeni. A loro le attenzioni maggiori sono un obbligo certo, ma non sono tutti così…». Oltre ad allenare, Andrea Testa collabora con diverse aziende. Promoter e testatore, In prima fila c’è Nordica, poi Hally Hansen, Level, Bollè e Gabel. «Le aziende sono fondamentali per lo sviluppo del nostro sport, a volte non hanno il meritato riconoscimento per quello che fanno nel nostro ambiente». Schietto e diretto Andare dicevamo. Ed è propio così…