Più ore, più performance. È proprio vero?

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Nel nostro recente articolo ‘Chilometri di scivolamento‘ abbiamo citato la teoria delle 10.000 ore di Malcom Gladwell. Abbiamo ricevuto un interessante contributo di Matteo Milanini che pubblichiamo volentieri.

L’idea che servano 10.000 ore di pratica per diventare dei campioni si trova ormai ovunque: nei corsi di formazione, nei podcast di crescita personale, nei discorsi motivazionali dei manager e ovviamente tra gli allenatori e persino nelle chat dei genitori. “Basta allenarsi 10.000 ore e si arriva in cima”. Peccato che la celebre regola non abbia alcun fondamento scientifico. È, a tutti gli effetti, un mito.

Il mito nasce da uno studio di K. Anders Ericsson e colleghi (1993, Psychological Review) che analizzava tre gruppi di violinisti della Musikhochschule di Berlino Ovest, divisi per livello di abilità: i migliori, destinati alle carriere solistiche; i buoni, che avrebbero suonato in orchestra; e i meno dotati, orientati all’insegnamento. Attraverso interviste e diari, i ricercatori ricostruirono con pazienza quante ore ciascuno aveva dedicato, anno dopo anno, allo studio individuale dello strumento. Il risultato era disarmante nella sua semplicità: più ore di pratica, migliore la performance. I violinisti di livello più alto avevano accumulato, intorno ai vent’anni, diverse migliaia di ore in più rispetto ai compagni meno esperti. Ericsson e colleghi ne trassero una conclusione che avrebbe fatto scuola: “molte caratteristiche considerate innatesono in realtà il risultato di anni di esercizio intenzionale, spesso protratto per almeno un decennio”.

Nessuna soglia magica, dunque: solo una media riferita a un gruppo molto specifico di musicisti. Ma nel suo bestseller Outliers, Malcolm Gladwell prese quell’ordine di grandezza, lo arrotondò a 10.000 e lo trasformò in una regola universale: l’idea che basti dedicare 10.000 ore di pratica a qualunque attività per diventare un genio. A sostegno della tesi portò esempi suggestivi — i Beatles che, tra il 1960 e il 1962, suonavano per otto ore al giorno nei club di Amburgo, o il giovane Bill Gates che programmava notte e giorno all’università — per dimostrare che il successo sarebbe solo questione di tempo e impegno

Tracciati di allenamento
Tracciati di allenamento

La “regola delle 10.000 ore” nasce quindi da una semplificazione narrativa di Gladwell: efficace per raccontare una storia, ma fuorviante sul piano scientifico. A chiarirlo, vent’anni dopo, furono Brooke Macnamara, David Hambrick e Frederick Oswald con una meta-analisi pubblicata su Psychological Science), che riesaminò 88 studi condotti in diversi ambiti — musica, sport, giochi, educazione e professioni. Il risultato fu inequivocabile: la pratica deliberata conta, ma molto meno di quanto si pensi. Spiega circa il 26% delle differenze di prestazione nei giochi, il 21% nella musica, il 18% nello sport, appena il 4% nell’educazione e meno dell’1% nelle professioni complesse. A conferma, una successiva meta-analisi specifica sullo sport mostra che, in media, la pratica spiega circa il 18% delle prestazioni, ma tra gli atleti d’élite la percentuale scende fino all’1%. Un dato cruciale: se la tesi “più ore = più performance” fosse corretta, ci aspetteremmo che al vertice la pratica contasse di più. Succede l’opposto.

Tornando alla musica, un ampio studio sui gemelli svedesi – dal titolo di per sé esplicativo: Practice does not make perfect: no causal effect of music practice on music ability– condotto su oltre diecimila e cinquecento partecipanti, ha mostrato che, all’interno di coppie di gemelli geneticamente identici ma con quantità di pratica molto diverse, non si osservano differenze significative di abilità musicale. Gli autori concludono che le differenze genetiche influenzano non solo la capacità, ma anche la motivazione ad esercitarsi: chi è più portato tende anche a praticare di più — non necessariamente il contrario. Il talento non è solo il risultato della pratica, ma anche ciò che la rende possibile. Ovvero il talento è il talento per la pratica.

A questo punto, la domanda diventa: se non basta praticare tanto, che cosa ci fa davvero primeggiare? La risposta viene dalla teoria dell’autodeterminazione, secondo cui la motivazione umana si fonda su tre fattori: competenza (il bisogno di sentirsi efficaci e di padroneggiare le proprie capacità), autonomia (il bisogno di sentirsi liberi e autori delle proprie scelte) e relazione (il bisogno di appartenere, essere riconosciuti e connessi con gli altri).

Quando un contesto — famiglia, scuola, squadra, sci club — sostiene questi elementi, favorisce una motivazione intrinseca e duratura. Al contrario, quando l’ambiente ostacola l’autonomia, mina il senso di competenza o genera pressione e isolamento, la motivazione diventa estrinseca e perciò fragile: può produrre sforzo, ma non crescita.

La ricerca scientifica mostra che la relazione tra impegno e piacere è un indicatore più affidabile della semplice quantità di pratica.  Non esiste un numero magico di ore per diventare campioni: l’eccellenza nasce da un equilibrio tra ciò che ereditiamo, ciò che alleniamo e ciò che amiamo fare. 

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